Progetto Carceri

Dobbiamo partire da una domanda: perché un cittadino onesto e già pie­no dei suoi problemi, dovrebbe pensare alle quasi 70.000 persone che stanno dietro le sbarre, quando ci sarebbe posto solo per 45 mila di loro. E se questo vale per la singola persona, vale anche per la nostra Fondazione: con tutte le richieste di aiuto, perché “guardare” alle carceri e a chi ci vive dentro? La risposta è proprio nella nostra mission: il grido di aiuto, da qualsiasi parte provenga ci chiede di farci carico della persona nel suo bisogno più evidente.

Così abbiamo cominciato a pensare al problema delle carceri. E come sempre accade, una domanda tira l’altra: possibile è interrogarci quindi sulle 28.178 persone in carcere ancora in attesa di giudizio, quindi presunti inno­centi. Non possiamo dimenticare le tante statistiche ufficiali che però non parlano mai di chi in carcere ci resta senza colpa, per un “errore” giudi­ziario. Succede anche questo, infatti, nella democratica Italia del terzo millennio e anche questa è senz’altro una di quelle questioni sulle quali è urgente riflettere senza però allontanare lo sguardo dall’impegno personale da chi, per diverso titolo, già lavora con i detenuti. 

Partendo dalla concretezza dei problemi ci siamo chiesti quale aiuto la Fondazione L’Arca, avrebbe potuto fornire a coloro che sono in “prima linea” nel lavoro con i detenuti, tenendo però lo sguardo anche a quanti stanno in cella ven­ti ore al giorno (o forse anche di più) e bisogna che facciano a turno per scendere dalle brande per sgranchirsi le gam­be. E se non possiamo fare molto per l’intera popolazione carceraria, dobbiamo invece fare l’impossibile per trovare un lavoro per quanti sono affidati a noi. E anche a quanti lo saranno in un prossimo futuro: perché questo si possa attuare, dobbiamo avere il coraggio anche di gesti “profetici”, di progetti arditi, di coraggiose scelte. Abbiamo così scoperto e di certi progetti che si stanno realizzando in altre carceri: ristorante, cioccolateria, birreria, pizzeria, pasticceria, sartoria e tanto altro ancora non solo per chi sta dentro ma anche per chi può fruire di pene alternative. Abbiamo conosciuto così volontari che lavorano in carcere da anni, combattuti tra la voglia di fare e il moltiplicarsi di problemi che impedivano il principio costituzionale delle condizioni umane della pena, funzionale alla rieducazione della perso­na. L’esecuzione penale ha un principio cardine: la funzione della pena non è solo retributiva ma anche, come afferma la Costituzione, rieducativa. Chi ha commesso un reato viene consegna­to non solo a un luogo (ad esempio il carce­re), ma anche a tutta una serie di rapporti interpersonali: con il direttore dell’istituto di custodia, la polizia penitenziaria, gli edu­catori, gli assistenti sociali, il magistrato di sorveglianza, tutti preposti alla fase ese­cutiva. Il ruolo dei volontari è diverso e fondamentale perché si appoggia su aspetti che nessuno può sostituire, tantomeno un funzionario dello Stato. Sulla bontà poi di tali percorsi rieducativi non mancano riprove e l’informazione (purtroppo molto scarsa) su questo tema non manca a confermarci che, quando viene conces­sa una seconda opportunità, chi è in carcere la rispetta. Su “Ristretti Orizzonti”, rivista del Carcere “Due Palazzi” di Padova si riporta un dato interessante e rassicurante: nel 2010, su un totale di 31.422 misure alternative conces­se, ne sono state revocate 1.968. Nel 94 per cento dei casi, cioè, i percorsi hanno funzio­nato. Queste misure vengono concesse con il contagocce, persino in una straziante emergenza di vivibilità dentro il carcere. Ed anche la concessione del­le misure alternative dipende esclusivamen­te dalla valutazione soggettiva dei magistra­to di sorveglianza. E questo – spesso – è un limite invalicabile laddove si ha un interlocutore che, sommerso dal lavoro o refrattario a tali percorsi, non risponde in modo concreto alle vostre richieste. 

Siamo certi, però, che il vostro lavoro dei volontari può solo confermare che un incontro, un percorso umano, è determinante per la possi­bilità di un cambiamento. 

E sappiamo altrettanto bene che nel mondo delle carceri le falle si aprono ogni giorno e questo può provocare in chi presta la propria opera in modo volontario una grande stanchezza e una profonda frustrazione che porta a ridurre al minimo anche la portata degli interventi più motivati. Noi dell’Arca nutriamo la speranza di aprire un dialogo quanto mai operativo, che dica il desiderio e la voglia di portare il cambiamento dentro la prospettiva di chi incontriamo. Chi lavora con noi, anche tra il personale carcerario, deve leggere un reale cambiamento e soprattutto coloro che sono detenuti o lo sono stati devono vedersi proiettati verso il mondo esterno, un mondo in cui loro sono di nuovo protagonisti.

Dal 2008 la Fondazione ha cominciato ad occuparsi delle carceri e dei detenuti. Il problema del sovraffollamento, il crescente numero di suicidi, la perenne mancanza di fondi che troppo spesso impedisce una vita dignitosa da reclusi e l’applicazione delle pene alternative ci sollecitavano continuamente, ma è stata la conoscenza di Padre Vittorio Trani a muoverci verso un’attenzione verso coloro che in carcere c’erano finiti. E abbiamo cosi conosciuto un mondo dove alla privazione della libertà, si aggiungevano altre restrizioni che non avevano ragione di esistere. Ci siamo chiesti come si può pretendere che il carcere così concepito fosse un luogo di recupero e non invece un luogo in cui si rafforzano le devianze.

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